domenica 31 marzo 2013

Buona Pasqua


“La vocazione del custodire non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. È il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. È l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. È il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene. In fondo, tutto è affidato alla custodia dell’uomo, ed è una responsabilità che ci riguarda tutti. Siate custodi dei doni di Dio.”
Papa Francesco – Jorge Mario Bergoglio



venerdì 29 marzo 2013

Manhattan su "Non Solo Turisti"!


Come anticipato qualche giorno fa, ci sono delle novità in corso.
E’ uscito il mio primo articolo sul blog di viaggi “Non solo Turisti”!!!
Sono contentissima, perché ho la possibilità di collaborare con un blog fatto veramente bene, simpatico e molto seguito.
Inoltre le persone che lo amministrano sono fortemente competenti, disponibili e appassionate di viaggi. 
Per me è un onore!
Se vi fa piacere, troverete il primo post su Manhattan a questo link



Spero che ci siano tanti altri racconti con la mia firma, ma questo dipende soprattutto da voi e dal vostro seguito!

Grazie mille a tutti coloro che leggeranno e commenteranno ;)

giovedì 28 marzo 2013

Something about me

Dopo più di un mese dalla pubblicazione del mio primo post e dopo aver superato le 1000 visualizzazioni (Hurrà! Piroette! Limbo! Trenino!), ho pensato che sarebbe stato carino mostrarvi un lato un po’ più personale della mia vita, le mie passioni al di là dei viaggi - l’argomento principale del blog - Avrete notato che che stento a mettere foto su di me e sulla mia vita “troppo privata”. Ad essere sincera sposo l’idea di non rendere troppo pubblici aspetti della vita che sarebbe meglio tenere privati, per questo utilizzo l’iniziale quando parlo dei miei amici e non posto mai foto di persone o cose troppo legate alla mia sfera personale. Con questo non voglio fare polemiche, eh, per carità! Ognuno è libero di scrivere e fare ciò che vuole e apprezzo molto chi parla di sé in maniera libera, spontanea e “senza veli”, mostrandosi per quello che è veramente senza artifizi. Però allo stesso tempo credo che c’è bisogno di più consapevolezza su quello che si decide di postare sul web. Inoltre, un velo di timidezza mi impedisce di agire in maniera audace ;)



Le mie passioni oltre ai viaggi e alla scrittura sono:

LEGGERE         




lunedì 25 marzo 2013

Yes We-ek-end!


Sole, sole, sole! Finalmente dopo tanta pioggia e anche neve, il sole primaverile ha deciso di farsi vivo prepotentemente questo week end. Appena ho scorto questo meraviglioso raggio di luce dalla finestra della camera da letto, ho subito pensato “Ah ah, non mi scappi!” Per cui mi sono vestita subito, mi sono catapultata in strada, ho messo l’I-pod nelle orecchie e sono arrivata a Napoli dove ad attendermi c’era la mia compagna di avventure T. e il suo scooter.
Scena: io, T., scooter, sole e Napoli. Una combinazione vincente per andare in giro tra i vicoletti del centro storico e tra le vie più famose dello shopping napoletano. In realtà avevo sentito che questo week end si sarebbe celebrata la 21esima giornata di primavera FAI durante la quale palazzi, chiese, castelli e parchi generalmente chiusi al pubblico sono aperti e gratuiti. Non potevo perdermi quest’opportunità in una città che brulica d’arte.
Eravamo diretti al Museo Archeologico di Napoli quando il nostro mezzo di trasporto comincia a fare i capricci perdendo benzina. Ora, mettete due donzelle che si intendono di motori come un bambino si intende di fisica nucleare e capirete come ci sentavamo in quel momento: panico! Temevamo un’esplosione imminente, una nube tossica, l’Apocalisse… Per cui abbiamo velocemente svoltato in un vicoletto dove c’era un meccanico per moto, quando ci siamo imbattute in un gruppo di ragazzi devoti alla Madonna dell’Arco. Non so da quale parte d’Italia o del mondo state leggendo questo post, ma vi assicuro che i devoti della Madonna dell’Arco sono una delle cose più folkloristiche di Napoli e provincia: ragazzi generalmente vestiti di bianco con una fascia azzurra in stile “Miss Italia” e una rossa in vita che sorreggono uno stendardo raffigurante la Madonna di appartenenza. Questi ragazzi, detti fuienti, attraverso una sorta di riti, canti e cori molto particolari si riversano in strada e richiamano l’attenzione del centro abitato ottenendo talvolta numerose offerte. Detta così, questa cosa può sembrare un po’ strana, ma vi assicuro che è una manifestazione religiosa molto sentita da queste parti. Se volete saperne di più, potete trovare qualcosa di molto più dettagliato qui




venerdì 22 marzo 2013

London is coming (part II)


Avete notato come sta cambiando The Little Luggage??? Sì, sì, lo so che non si inizia mai un testo con un urlato del genere, ma io sono troppo emozionata perché questo blog sta diventando qualcosa di importante e i followers stanno aumentando continuamente! Addirittura vi sono visualizzazioni dall’Australia, Stati Uniti e varie parti dell’Europa, per cui proprio in questi giorni ho ritenuto opportuno dare un’aria più professionale a questo neonato blog:  ho inserito (grazie al mio amico Q.)tutte queste caselline, link, tags che vedete in giro sulla home page e il risultato non è niente male!  Ma non temete, non sono diventata seriosa, tantomeno posh (per dirla all’inglese),il blog è lo stesso, con il funny mood di sempre. E’ un po’ come se mi presentassi ad un colloquio di lavoro con un tailleur sartoriale, magari consigliato da Enzo Miccio, e avessi lo shatush fuxia, alla Kelly Osbourne! Ah Ah!
Vi informo anche, ma non posso ancora svelarvi nulla, che presto su un blog di viaggi famosissimo, usciranno una serie di articoli firmati dalla sottoscritta (balletto, trenino, piroette e lancio di coriandoli: che felicità!). Quindi, che dire, sono stra-felice per cui capirete sicuramente l’incipit urlato.
Ma adesso voglio tornare ai miei racconti di viaggio che ultimamente ho trascurato a malincuore, dati gli impegni di cui sopra e quelli di lavoro (il mio, quello ufficiale) e lo farò raccontandovi la seconda parte del mio viaggio al femminile su Londra.



martedì 19 marzo 2013

Amantea


Devo segnalarvi una cosa davvero carina che interessa i calabresi e tutti i turisti che vogliono visitare questa bellissima terra: si tratta di un’APP gratuita,  Enjoy Calabria, che fornisce brevi ma coincise informazioni su tutto ciò che si può visitare in Calabria, da aziende vinicole a musei archeologici, passando per località balneari e borghi medioevali. Insomma, qualcosa di interessante da tenere default sul proprio I-phone.

Detto questo, avrete senz'altro capito che prosegue il mio tour in giro per la Calabria (Bravi! State imparando a conoscere questo blog!). Questa settimana è stata la volta di Amantea.




domenica 17 marzo 2013

London is coming (part I)


Avevamo progettato questo viaggio sin dall’estate scorsa. Io e T. eravamo sedute in riva al mare, sotto al sole cocente e sognavamo di scappare a Londra per un week end tra amiche. 
C. era ancora a lavoro nel suo fichissimo ufficio londinese, aspettava solo che le dicessimo l’ora in cui sarebbe atterrato il volo che ci portava dritte da lei. 
Consultai brevemente il calendario lavorativo di mio marito e diedi disponibilità per il week end di Halloween. T. constatò che quello sarebbe stato un periodo perfetto, poiché non aveva troppi impegni lavorativi, dato il ponte per la festività. Scaricammo l’APP di EasyJet sull’I-phone e prenotammo i biglietti, proprio lì, sotto al sole ardente di agosto. 
Eravamo tutte e 3 eccitatissime. Il tempo passò in fretta e in un batter d’occhio ci ritrovammo a una settimana dalla partenza. C. organizzò un planning minuzioso e allettante (con tanto di evidenziatori colorati, alternative in caso di pioggia e orari per pranzo,cena e the del pomeriggio), tanto che non mi passò proprio per la testa di acquistare una guida o di consultare i miei blog di viaggio di fiducia.
Atterrammo a Stansted e l’EasyBus (sapientemente consigliato e prenotato on-line da C.) ci portò fino a Baker Street proprio davanti al museo di Sherlock Holmes. Pur vedendo solo l’esterno del museo, mi sentivo già calata nel mood tipicamente British! 
C. era da poco uscita da lavoro e doveva fare degli ultimi acquisti per la nostra cena in tipico stile inglese, quindi ci fermammo alla Tesco, dopodiché andammo a casa sua. L’impatto fu delizioso: la casa è situata in una zona residenziale piena di verde e non lontana dal centro. L’arredamento mi ricordava molto quello dei film di Hugh Grant: moquette nelle camere in stile Notting-Hill , salotto con caminetto e finestroni, cucina e bagno super accessoriati.  Io e T. posammo le nostre valigette, ci mettemmo comode e gustammo la cena con tanto di apple crumble e custard cream. Dopo ci preparammo per andare a bere un drink in un locale, il Bodo's Schloss, nella zona di Kensington. Il posto era davvero carino e ben frequentato: location e cucina tipicamente bavaresi, cameriere agghindate in Dirndl e dj che suonava le ultime hit radiofoniche. Ci raggiunsero anche altre due amiche di C., una tedesca e una francese, degustammo un paio di drink e ci divertimmo tutte assieme a deridere svariati personaggi che si dimenavano in danze strampalate e a raccontarci la nostra estate.
Qui l’osservazione ci sta tutta: le serate nei locali inglesi non durano fino a notte fonda, anzi, iniziano presto e finiscono poco dopo l’una. Addirittura le persone sono solite andare a fare un aperitivo subito dopo il lavoro, senza passare per casa, trattenersi con gli amici e poi rincasare definitivamente dopo qualche ora.  Rifletteteci, questo dovrebbe essere il vero Happy Hour! L’orario felice in cui si esce da lavoro e ci si va a distrarre con gli amici. Dalle mie parti, invece, subito dopo il lavoro, fai il diavolo a quattro nel traffico per ritornare a casa. Una volta rientrato sei così distrutto e affamato che mangi tutto quello che ti capita sotto il naso (il porta-ombrelli, il gatto, la bolletta della luce…), ti butti sotto la doccia per rimetterti a nuovo e solo alla fine affronti il tragico dilemma esistenziale: “cosa faccio, mi ri-preparo, ri-vesto, ri-esco per bere qualcosa con gli amici sapendo che farò tardi (perché ormai si è fatto tardi!) e che domani me la prenderò con quella suocera della sveglia che suona sempre alle 7:00, oppure mi infilo il pigiama e mi lancio nel lettone avvolto da coperte a accompagnato dal solito film demenziale?” La risposta è semplice e chiara. L’alternativa che risolve il dramma esistenziale si chiama palestra. “Al diavolo le calorie di arachidi, pop corn e Aperol Spritz: vado a finire di stressare la mia giornata in palestra, così dopo sarò talmente morto che invece di tuffarmi nel letto, mi lancerò direttamente nella prima fossa libera del campo santo”.
Bene, dopo questa digressione off-topic, torno a Londra e alle sane abitudini inglesi.  Mentre T. si preparava per dormire nel comodo letto una-piazza-e-mezza assieme a C.,  io mi accingevo a dormire nel futon posizionato nel salotto. Ora, avete mai dormito in un futon? Ve lo consiglio: è quello che ci vuole per chi, come me, ha un’andatura barcollante e una postura in stile Torre-di-Pisa. Il mattino dopo ero sveglia già alla buon ora e fremevo perché volevo riversarmi in strada, l’unico handicap era svegliare le due dormiglione accanto. Utilizzai la tecnica “occhioni-dolci” del Gatto con gli stivali di Shrek e non poterono non alzarsi. Trascorremmo la prima mezza giornata a bighellonare tra Oxford Circus, Carnaby Street, Born Street, Piccadilly Circus e Trafalgar Square già piene di luminarie natalizie. La principale attività fu shopping sfrenato: T. era intenzionata a svaligiare Primark, mentre io ero più proiettata su Miss Selfridge






La seconda attività fu puramente ludico-demenziale, in quanto la felicità di trascorrere finalmente del tempo assieme rallegrava ogni nostra attività. La terza fu la fotografia: ho delle foto bellissime, soprattutto quelle del tramonto su Trafalgar Square










Girammo con la mitica Underground: C. ci aveva procurato due mini-abbonamenti per l’occasione. Dopo un breve pit-stop a casa, ritornammo in strada, prima a cena fuori in un delizioso ristorante di Maida Vale e poi in un localino di Soho per bere un drink. Soho è davvero la zona perfetta di Londra per passare una serata a cena tra amici, o con la propria metà, e fare un giro all’aria aperta. 



La serata non finì tardi (per le stesse motivazioni di cui sopra), però sapevamo di averla vissuta in tutti i suoi minuti, assaporandone ogni aspetto e divertendoci come solo un gruppo affiatato di amiche sa fare.
Adesso devo lasciarvi; continuerò il mio racconto a breve. 
Mi dispiace essere stata poco presente questa settimana, ma ho avuto parecchio da lavorare (e menomale!). Nel frattempo vi posto qualche simpatica foto, in attesa di leggere il resto della storia ;)















mercoledì 13 marzo 2013

El nuevo papa es argentino y se llama Francisco I

Ero particolarmente emozionata alla vista di Piazza San Pietro stasera.
Tutti quei popoli uniti sotto un unico cielo e in un unico spazio.
Come ho scritto su Facebook, questo è segno che la religione PUO' unire i popoli, invece di separarli.
Poi la rivelazione:
il papa è Argentino!
E' Jorge Mario Bergoglio e ha scelto di chiamarsi Francesco.
Segno di semplicità, umiltà e amore,
segno di cambiamento e apertura. 
Otto secoli fa Gesù disse a Francesco: "Va e ripara la mia casa che è in rovina".
Se questo non è un segno...
E poi è simpatico, sembra cordiale, persino alla mano.
Non sono mai stata una gran cattolica, ma l'emozione stasera era forte tanto da far sgorgare lacrime di gioia (di speranza).
Poi quell'accento argentino, così fresco, così simpatico,
simile a quello degli amici conosciuti in questi anni,
di Maradona, del Pocho, di Che Guevara.
Non so voi, ma a me piace già tanto.
Gli voglio già bene!




domenica 10 marzo 2013

Welcome to the Coco Bongo Club


Quando io e Cary Grant siamo stati al Coco Bongo era il giugno del 2009, io avevo 25 anni e lui 29. Passavamo da un locale all’altro in compagnia di amici o semplicemente da soli; il divertimento era assicurato. Ma fino ad allora non avevamo mai visto un posto del genere e credo che probabilmente non avevamo nemmeno idea che esistesse un posto così sulla faccia della terra.

Alloggiavamo a Playa del Carmen, uno dei luoghi più belli del Messico, e una sera decidemmo di andare a ballare con un gruppetto di ragazzi conosciuti durante il nostro soggiorno. Appena arrivati al centro di Playa ci trovammo davanti a questo edificio metà castello-pacchiano metà botteghino-anni ’50.




Dopo che svariati energumeni messicani praticavano i dovuti controlli, ci riversammo in questo immenso teatro contemporaneo: al centro c’era un bancone da bar enorme con molteplici baristi, camerieri e una folla di ragazzi impazziti. Sul lato principale, in rialzo, sorgeva il palco con tanto di quinte, tendoni e maxi schermo antistante. Sugli altri lati c’erano diversi palchetti dove si raggruppavano le comitive più selezionate in stile privè. Salimmo le scale e arriviamo ai piani alti proprio di fronte al palco principale. Posizione ottimale per godersi al meglio lo spettacolo senza dimenarsi tra la folla impazzita. Dettaglio importantissimo: ogni piano aveva un bar attrezzatissimo con barman e camerieri sempre a disposizione. Dopo esserci assicurati il nostro fornitore personale di tequila sale e limone, ci posizionammo per assistere allo spettacolo.








Beatles, Micheal Jackson, Frank Sinatra, Lou Bega passando per Beetlejuice, Spiderman e ovviamente The Mask. E’ incredibile la quantità di personaggi che lo staff del Coco Bongo riesce a personificare per la gioia e l’ammirazione del pubblico. E incredibili sono anche i chupitos di tequila…




Da allora sono nati tanti nuovi personaggi che sicuramente hanno avuto un posto importante all’interno dello show (Lady Gaga, Jack Sparrow), ma la performance che rapì la mia attenzione fu quella di The Passion (film di Mel Gibson): trapezisti che svolazzavano qua e là attraverso nastri rossi.






L’ultima trasposizione fu quella di un esilarante The Mask in delirio sulla folla.




Dopo circa 3 ore di live performance, ballerini e artisti circensi lasciarono la scena a favore di un DJ house-commerciale che scatenò platea e palchetti. 
Sipario abbassato, luci soffuse e alzate il volume… The show must go on!

sabato 9 marzo 2013

Pump up the volume!

Oggi io e mio fratello ci siamo concessi un quarto d'ora di follia. 
Avete presente quando spiriti goliardici si impossessano del vostro corpo e cominciano a farvi dimenare come api impazzite? 
Ecco, questi eravamo noi. E ci sentivamo particolarmente ispirati da non-so-cosa tanto da mettere YuTube a tutto volume, scatenarci come Danny Zuko Sandy in Grease e ridere come matti. 
Ad un certo  punto mi sono imbattuta nella scena di uno dei film più pazzi (e a tratti demenziali) degli ultimi decenni:






Credo di aver visto The Mask circa 15 volte poiché mio fratello aveva come idolo della propria infanzia Jim Carrey e tutti i suoi personaggi (oggi grazie a Dio è migliorato molto in quanto a gusti cinematografi), conosco bene molte battute ("Dì a Rossella che francamente me ne infischio" è il mio cavallo di battaglia) e sono anche stata in questo famoso Coco Bongo Club di cui tanto si parla nel film.
In realtà esistono ben due Coco Bongo, entrambi in Messico, uno a Cancun e un altro a Playa Del Carmen. Il primo è più grande e più rinomato, il secondo è sorto successivamente data la mole di turisti (e non) attratta dagli spettacoli del Coco Bongo di Cancun. Io sono stata a Playa del Carmen e devo dire che mi sono divertita un mondo. Un cabaret-spettacolo-musical-discoteca unico al mondo, che attira persone di tutte le età (ovviamente over 21), una struttura in stile teatro e uno staff di ballerini, trapezisti, artisti circensi e cantanti davvero ottimo.
Ve ne posto un assaggio prima di parlarvene domani:




                                   
Nel frattempo, vi auguro un sabato sera ssssssspumeggiante ;)

giovedì 7 marzo 2013

'Na Tazzulella e Cafè


Sono sveglia da più di nove ore e non ho ancora preso una tazzina di caffè.
Un record!
Eppure sono ancora in  piedi, in connessione col mondo, riesco a ricordare ancora il mio nome e l’ultima volta che sono andata dal parrucchiere. Sono viva! Non sono stata ancora sopraffatta dalla potenza annientatrice di una giornata senza caffè!
Di solito a quest’ora ne ho già ingurgitati quattro o cinque, ma oggi proprio non ne voglio sapere di  prendere la moca, riempirla d’acqua, farci scivolare svariate cucchiaiate di macinato, chiudere e mettere il tutto sul fornello. Eppure (da tipica campana, se volete napoletana o comunque terrona quale sono) il caffè è una tappa obbligatoria della mia quotidianità , un rito propiziatorio immancabile, qualcosa di sacro come la domenica a messa, la pizza con la mozzarella, il casatiello a Pasqua e il ragù che cuoce dalle 5 del mattino.
Nel corso degli anni ho scoperto che la pausa caffè non è un qualcosa che accomuna soltanto noi italiani (o meglio Noi-Del-Sud) ma anche gli americani, i brasiliani, gli orientali… Certo, ognuno lo beve a modo suo: gli americani chiamano caffè quell’intruglio simil-brodo color testa di moro erogato da Starbucks e trovano troppo forte quello ristretto napoletano. Ma qui viene il bello: avreste mai pensato che un animaletto a metà tra il procione e lo scoiattolo potesse defecare il caffè più costoso al mondo? Avete sentito bene, ho detto proprio de-fe-ca-re.







Due anni fa, durante un bellissimo viaggio in Indonesia, io e il mio Cary Grant abbiamo visitato un luogo dove si coltivavano diversi tipi di spezie, arachidi, frutti tropicali e dove si produceva/allevava il Kopi Luwak. Questo nome deriva dal composto Kopi, che in indonesiano significa caffè, e Luwak che è il nome di questa specie di marmotta con la cagarella. Questo animaletto, che normalmente si nutre di insetti, piccoli roditori, nidi di uccelli e uova, ingurgita anche delle bacche da caffè, le quali però non riescono ad essere digerite dall’organismo del roditore, per cui vengono espulse attraverso le feci. La particolarità è che gli enzimi del Luwak riescono a rompere solo la parte superiore del guscio, eliminando il retrogusto amaro e conferendo quel tipico sapore dolce che lo ha reso famoso in tutto il mondo. Che storia eh?






Facendo una breve googolata ho scoperto che la quotazione attuale di Kopi Luwak è pari a 133 dollari all’etto e che berne una tazza in Australia costa fino a 48 dollari.
Io e Cary Grant abbiamo fatto un breve assaggio di tutti i vari caffè prodotti sull’isola di Bali e devo dire che il Kopi Luwak non era per niente male.  
Però devo essere sincera, il caffè di casa mia resta sempre il mio preferito. Anzi, a furia di parlarne, mi è venuta troppa voglia: è giunto proprio il momento di prepararmene una bella tazzulella. 
Vi auguro un buon pomeriggio ;)

martedì 5 marzo 2013

Scilla: tanto sole e tanto mare.


Quando in giro si respira un’aria cupa e a tratti nevrastenica, poche sono le cose che riescono a risollevare un morale sull’orlo di un precipizio: la Montagna e il Mare. Ok, questa non sarà sicuramente la scoperta dell’America, ma se ci riflettete converrete con me che è meglio rifugiare i propri pensieri in mezzo alla natura piuttosto che azzardare soluzioni alternative potenzialmente nocive. Esempio: quando litighi con qualcuno, credo sia più salutare scappare in montagna, respirare, riflettere su reciproci errori e trovare possibili soluzioni anziché sconfinare le proprie angosce in barattoli di nutella oppure in shopping sfrenato al centro commerciale. Certo, questo tipo di soluzioni sono molto appetibili, ma sono nulle poiché apportano un miglioramento momentaneo che sfuma nell'attimo in cui il problema principale riemerge col suo ghigno beffardo in stile It il pagliaccio accompagnato da altri due problemi: quello del mal di pancia fulminante nel caso della nutella e quello del conto in banca a rosso nel caso dello shopping sfrenato. Quindi inutile affannarsi con inefficaci placebo, meglio una bella passeggiata in riva al mare. Se poi aggiungiamo un paesaggio da cartolina, un bello spaghetto alle vongole e una bella fritturina di calamari, allora i problemi alzano i tacchi e vanno a rompere le scatole a quelli ancora impegnati ad affogare i grissini nel barattolozzo di nutella.

Ieri mi trovavo in Calabria, nella città in cui lavora il mio Cary Grant, che ultimamente è un po’ sottotono a causa di quest’aria torva di cui parlavo qui sopra. Quindi ho deciso, assieme ai miei due complici temperatura-ottimale e sole-primaverile, di spazzare via la tensione partendo per una gita fuori porta. E direi che ho avuto una grande idea, perché abbiamo avuto la fortuna di visitare un posto molto affascinante dove la naturalezza si fonde con il mito e il profumo del mare con quello del pesce spada arrostito: Scilla, in provincia di Reggio Calabria.




Molti di voi conosceranno il mito di Scilla, giusto? (sarò sincera, io non lo ricordavo bene per questo ho chiesto l’aiuto di Sua Maestà Wikipedia prima di scrivervi fandonie!) Ci sono diverse scuole di pensiero in merito, ma quella più attendibile è un surrogato di amore e gelosia che ha come protagonisti Glauco il figlio di Poseidone, che si innamora della ninfa Scilla. Purtroppo la donzella poco ricambiava questo corteggiamento poiché il giovane era un mezzo mostriciattolo, infatti scappava alla sola vista di quel poveraccio. Glauco voleva davvero conquistarla, ma chiese aiuto alla persona sbagliata, la perfida Maga Circe (questa signora qui sbuca ogni volta che si parla di un mito greco, c’avete fatto caso?), che a sua volta era innamorata di Glauco e che per gelosia trasformò Scilla in una creatura con teste di cane al posto delle gambe. Disperata, la povera Scilla andò a vivere per sempre su uno scoglio nei pressi dello stretto, che da lei prese il nome. Cariddi invece era una donna molto pericolosa, trasformata in un altro mostro dal cattivissimo Zeus. Lei si rifugiò dall’altra parte della costa (quindi in Sicilia) e assieme a Scilla era il tormento di tutti i pescatori che solcavano lo stretto di Messina.

Appena arrivati a Scilla, si pensa a tutto fuorché a un posto terribile popolato da creature marini terrificanti. E’ un villaggio di pescatori il cui orologio sembra essersi fermato nel tempo, una cittadina arroccata dove il mare la fa da padrone con la sua presenza e potenza, un insieme di viuzze che sembrano cunicoli e sbucano tutte sul mare, segno del rispetto e della riverenza che questo paese ha per esso. Ma è anche un insieme di etnie, quella calabrese e quella siciliana, quindi di dialetti, di tradizioni e cultura. Un eterea tranquillità cullata dalle onde del mare. E che mare… Il Mar Tirreno ha un profumo tutto suo: forte, salato, incisivo, presente, difficile da dimenticare. E difficili da dimenticare sono i colori delle sue acque che assumono colori diversi a seconda delle sfumature della costa. Uno spettacolo che trasformerebbe tutte le giornate “no” in giornate positive. 


Monumento ai pescatori
Ci soffermiamo per più tempo lungo il belvedere di Piazza San Rocco, poiché lo spettacolo era notevole e le acque talmente cristalline che quasi potevamo ammirarne i pesci. In cima al promontorio che suddivide la spiaggia di Marina Grande da Chianalea si erge il Castello Ruffo, una fortezza che doveva tenere a bada le incursioni dei pirati sin dall’epoca dell’antica Magna Grecia. Da lì ci siamo spostati verso la zona marittima attraverso scalette, strettoie e viuzze che formano un reticolato urbano molto strutturato e pittoresco.





Quando si arriva a Chianalea si ha quasi l’impressione di aver sbagliato a seguire il GPS e di essere arrivati a Venezia: le case sono costruite sulla roccia, le imbarcazioni sono sorrette da funi incastonate nella roccia stessa e vi è una moltitudine di canali che separa una casa dall’altra. Ma a differenza di Venezia, si respira un’aria più frizzante, meno malinconica e i colori sono molto più vivaci.








Lungo la strada di Chianalea vi sono una moltitudine di negozietti, bar, B&B e ristoranti che emanano odorini deliziosi.
Ci incamminiamo verso il porto e lì restiamo per una buona oretta, distesi sulle mura che lo circondano in compagnia di pescatori silenziosi, del calore del sole, del profumo delle onde e del canto dei gabbiani. Altro che centro benessere con SPA, questo è puro, sano e gratuito relax! 






Ci avventuriamo anche a scorgere un simpatico pescatore, molto avventuroso e agile tra le rocce, dopodiché, vuoi la passeggiata, vuoi il profumino di mare, siamo colti da un’improvvisa fame che ci spinge verso un ristorantino che definire delizioso è riduttivo. Il Bleu de Toi sorge in una di queste casette di pescatori ristrutturata ed adibita a ristorante, quindi al suo interno vi sono ancora ganci da traino per le barche, ancore, forconi, fiocine, anfore e in generale tutti gli elementi che un tempo servivano per pescare. Inoltre vi sono moltissime foto di battute di pesca e tantissimi gusci di conchiglie. Insomma, un vero e proprio museo del mare! Ordiniamo un antipastino della casa, davvero delizioso e particolare, uno spaghetto alle vongole (ottimo!) e per finire Cary Grant ordina anche una fritturina di calamari che si sposava perfettamente col vino bianco degustato. Il personale è davvero cordiale quindi colgo l’occasione per fare il mio solito carico di domande in puro stile “curiosona”, loro non sembrano disdegnare la cosa e mi raccontano molti aneddoti della zona. Anche un altro ragazzo si ferma a chiacchierare con noi sulla geologia del paese e sulle bellezze storiche. Ecco, la conferma che gli abitanti di Scilla, come del resto tutti gli abitanti della Calabria, sono persone gentilissime e cordiali e fanno di questo posto una terra umile, disponibile e ricca di contenuto che merita un posto ai piani alti del turismo italiano.






Se vi trovate da queste parti, fate un salto a Scilla e potrete dire con convinzione di aver visitato uno dei più bei borghi d’Italia, di aver mangiato il miglior pesce spada di sempre e di aver fatto anche un discreto carico di cultura. Questa è la nostra cara Italia… riesce sempre a regalarci molte emozioni in poco tempo e senza farci percorrere lunghe distanze. Almeno di questo dobbiamo esserti eternamente grati.  

sabato 2 marzo 2013

Un paese ci vuole.


L’altro giorno parlavo della California e di quanto Los Angeles fosse diversa da New York.
In realtà tutte la East Coast è diversa dalla West Coast , quindi la logica vuole che anche il centro America sia a sua volta diverso dalle due coste.  Queste non sono solo mie supposizioni: ho la fortuna di conoscere molte persone provenienti da tante parti degli Stati Uniti che mi hanno raccontato un po’ delle loro storie e delle loro città. Molti di questi si soffermavano sul fatto che i loro paesi erano molto dispersivi e che le proprie famiglie impiegavano ore intere per raggiungere un vicino oppure un parente, che le proprie case erano circondate da campi molto estesi oppure esposti a giorni e giorni di intemperie, durante i quali l’unica cosa da fare era stare a casa davanti alla tv. Alcuni di questi  hanno deciso di lasciare il proprio paese del North Dakota o del Wyoming per studiare a Boston o lavorare a Seattle, perché nel territorio dove risiedevano avevano poche possibilità di praticare il lavoro dei propri sogni o perché non esisteva un corso di studi adatto alle proprie attitudini. O ancora molte di queste persone lasciavano il proprio paese perché offriva poche prospettive di vita sociale. Potete avere una facile idea di quello che sto raccontando attraverso i miei adorati telefilm americani oppure attraverso alcuni reality che impazzano su Mtv: vi è mai capitato di vedere Sixteen and Pregnant? Alcune di queste giovani donzelle vivono in paesi davvero piccoli o in case molto lontane dal centro cittadino. E perché non ricordare il famoso Twilight? Bella e tutta la banda di vampiri e licantropi abitano in una cittadina (immaginaria) di nome Forks veramente dimenticata dal Padreterno, costantemente esposta a intemperie e tristemente attiva a livello sociale.  Certo, ci sono dei grandi centri abitati nel centro America come Denver, Saint Luis, Salt Lake City… Ma è a ridosso delle due coste che vi sono i più grandi agglomerati urbani. Insomma  non tutto il territorio statunitense è strafigo, scintillante, super glam come New York. 

Con questo non voglio assolutamente sfatare il “Mito Americano”, ma riflettere su quanto gli Stati Uniti non siano poi così tanto diversi dagli altri paesi del mondo, da questo punto di vista. Prendiamo la nostra Italia: quanti ragazzi lasciano  il proprio paesino per andare a studiare a Milano, a Roma? Quanti giovani laureati non hanno prospettive lavorative nel proprio paese e decidono di tentare la carta del mollo-tutto-e-vado-via? Quanti di noi viviamo in piccoli paesi, dove ci si conosce tutti ed è impossibile uscire senza salutare il tizio al bar, la cassiera nel minimarket, l’edicolante, la signora anziana del terzo piano che chiacchiera con quella del quarto davanti al portone, l’amico di papà che fa la fila alle poste? Che poi, secondo me, abitare in un piccolo paese o, quantomeno, tornarci spesso non è una cosa così drammatica. Portare il proprio paese, la propria città nel cuore non deve farci sentire meno cool o più retrogradi  rispetto a colore che vivono a Bologna, ma magari provengono da Palomonte e lo nascondono per chissà quale motivo. E allora i francesi cosa dovrebbero dire? Ogni volta che pensiamo alla Francia, immaginiamo Parigi e la Torre Eiffel senza pensare che la Francia è anche Tolosa, Brest, Reen, Avignone, Marsiglia, Nancy, Dijone... I francesi vanno molto fieri del proprio paese e lo rimarcano ogni qualvolta qualcuno li addita come cittadini parigini (I'm French, not Parisienne!). Ma sono sicuro che questo sentimento si manifesti anche nell'animo dei tedeschi, degli svedesi...  E degli americani di cui parlavo prima, come sono sicura che capiti anche a molti italiani e in generale a tutti coloro che sentono che un paese ci vuole. 

Durante il mio ultimo viaggio negli USA, leggevo un libro davvero significativo in merito, Cesare Pavese “La Luna e i Falò”. Il protagonista di questo breve romanzo ritorna nel  suo paesino delle Langhe piemontesi dopo esser stato emigrante degli Stati Uniti durante la Liberazione d’Italia. Al suo rientro ritrova il suo amico di sempre e rivive i luoghi, le persone che la guerra ha cambiato se non addirittura cancellato durante la sua assenza. Alla fine si rende conto che è proprio quel senso di appartenenza ad un luogo, quel senso di famiglia che lo spinge a rientrare, ma che andare via è necessario per aver consapevolezza che il mondo non è racchiuso tra le mura del proprio territorio e che il modo di vivere, di pensare degli abitanti del proprio paese non è ortodossia... Il tutto è racchiuso in una frase memorabile, che porto sempre nella mia testa:




Io provengo da due paesi: quello in cui sono nata e quello in cui sono cresciuta. Due paesi non lontani tra di loro ma molto diversi per modi di vivere, di pensare, per il clima e per il tradizionale pranzo natalizio. Questo fa di me una privilegiata, perché posso sentire due volte il senso di appartenenza oppure una sfigata perché pur avendo vissuto in due posti, alla fine non appartengo veramente a nessuno dei due. Punti di vista. 
Io so solo che amo entrambi e che sono un concentrato di molteplici modi di vivere, di pensare, di dialetti e anche di più tradizioni... Perfino sui pranzi natalizi.
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